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276 La Conquista di Roma

una eleganza di forma, con una rotondità di periodo che talvolta il gesto della mano, circolare, accompagnava e compiva, come il movimento di una piccola ruota. Il discorso filava, filava, dolcissimamente, senza mai un abbassamento di voce, senza un’esitazione, come un canto d’usignuolo: l’oratore non guardava il ministro, guardava in aria, come un virtuoso; non si chinava mai a guardare le sue note, come uno che conosca la sua parte a memoria. Ma in tutta quella dolcezza esteriore, il discorso suonava di rampogna: l’oratore non parlava nè di persone, nè di fatti, ma pur restando in una certa vaghezza di termini, diceva che erano state offese certe istituzioni e certe idee, a cui sin allora niuno aveva toccato. Era un discorso senza ingiuria, un po’ nebuloso, forse, ma accusava: taceva i nomi, ma feriva le coscienze.

Il ministro ascoltava attentamente e ogni tanto sogguardava il presidente, che non si voltava mai dalla sua parte: gli altri ministri ascoltavano con attenzione profonda don Mario Tasca, che continuava nella bella fluidità della sua prosa: i deputati tutti rivolti verso la destra ascoltavano: lassù tutto il pubblico delle tribune si pie-