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24 | La Conquista di Roma |
Prima una sbarra di un verdino pallidissimo, che saliva, parallela, all’orizzonte: poi un chiarore livido, freddo, di cui sembrava potersi vedere la lentissima dilatazione sull’alto del cielo. In quella glacialità di notte spirante, la campagna romana si apriva, vastissima. Dallo sportello presso cui stava ritto, Francesco Sangiorgio la guardava. Era un’ampiezza di pianura il cui colore ancora non si scorgeva, ma che, qua e là ondulava, come le dune d’un mare poco lontano; e la penombra fitta, con quella scialba irradiazione che ancora non arrivava a vincerla, dava alla campagna romana uno sconfinamento di deserto. Non un albero: solo, di tratto in tratto, una siepe alta e fitta, nera, che pareva facesse una riverenza circolare e fuggisse.
Le stazioni cominciavano ad apparire bigie, tutte umide ancora della brina notturna, con le finestre sbarrate e le persiane verdi che avevano presa una tinta rugginora, i magri alberetti di oleandri coi rami pendenti e i fiori tutti stillanti, pioventi al suolo, come se piangessero; con l’orologio dal largo disco biancastro che macchie di umidità deturpavano, e le cui brune lancette,