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246 La Conquista di Roma

sarebbero discese su lui, ferito o morente, lagrime di donna, tenerezza d’amico, rimpianto di persone affettuose: ma lui solo, Sangiorgio, avrebbe pianto su sè stesso, sui propri desiderii di gloria dispersi, sui propri sogni d’ambizione svaniti nella vergogna fisica e morale del disastro. Il colpo di sciabola che l’indomani avrebbe tagliata la carne, recisi i muscoli, divisa una vena, avrebbe trovato la via del cuore, di quel cuore chiuso e duro dove un solo sentimento viveva, per ferire a morte questo sentimento. L’opera lenta e solida a cui egli lavorava da tanto tempo, con una pazienza da formica, con una ostinazione immutabile, domani, sarebbe crollata: a che valevano più tanti sforzi, tanto studio, tante privazioni, tante astinenze, tanti dolori sopportati in silenzio? Un colpo di sciabola: tutto diventava inutile. Così, al lume fumicante di quella candela stearica, nella notte, nella solitudine, quelle armi sguainate e fredde, per un minuto fugacissimo gli fecero paura.


Alle otto e mezzo preciso, vennero i padrini. Sangiorgio, vestito di tutto punto, la redingote abbottonata, il cappello a cilindro ben lucido po-