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18 | La Conquista di Roma |
viaggianti in quel treno notturno, posavano, nella grande dolcezza dell’addormentamento. Il treno si portava via, alla loro sorte, triste, buona, mediocre, quegli spiriti sognanti e quelle forme abbattute nella quiete: quegli esseri godevano la profonda voluttà dell’annichilimento senza dolore, lasciando a una forza, fuor di loro, il trasportarli lontano.
— Ma perchè non posso dormire anch’io? — pensava Francesco Sangiorgio.
E un momento, ritto, nel suo vagone deserto, sotto la vacillante luce della fiammella a olio, con la campagna nerissima che fuggiva dietro i cristalli, con la leggera brina che appannava quei cristalli, col freddo della notte che si faceva più frizzante, gli parve d’essere solo, irrimediabilmente, abbandonato, perduto, nella debolezza della solitudine. Si pentì di avere per orgoglio richiesto un compartimento riservato, desiderò la compagnia di un uomo, quella di una persona qualunque, un suo simile, il più umile. Si sentì smarrito e pauroso come un bimbo, in quella gabbia donde non poteva uscire, che la macchina portava via, quella macchina che egli era impotente a fermare nella sua corsa: era spaventato,