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La Conquista di Roma 137

congegno, così potente nelle sue leve di acciaio, che quando io mi piego a guardarla, di quassù, mi fa spavento, come una macchina infernale.»

In quel tramonto crescente, Francesco Sangiorgio, tutto pallido, si piegò macchinalmente a guardare anche lui, in giù, come per scoprire la misteriosa macchina di Roma.

«E quel che si sogna, venendo qui!» seguitò Tullio Giustini, con un breve riso sarcastico. «Tutta una serenità amorosa di grande città che vi aspetta, poichè voi siete giovane e avete ingegno e volete lavorare e non essere indegno della città augusta. Anche io ci son venuto così e mi pareva che il primo cittadino romano dovesse abbracciarmi. Invece, dopo tre o quattro anni di rodimento, di tormenti interni e di forti delusioni, ho imparato varie cose: che ero troppo aperto per riuscire in politica, che ero troppo brutto per piacere alle donne, che ero troppo malato per riuscire in una scienza, che ero troppo duro per riuscire in diplomazia. Questo ho imparato e da questo una verità fulgida come il sole, terribile come la stessa verità: Roma non si dà a nessuno!»

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