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70 per monaca


Giulia diede una spallata. Tanto, era povera, nobilissima, con la famiglia carica di debiti, fidando solo sulla propria bellezza, per fare un gran matrimonio: e tutti i vecchi amici di casa, le zie straniere, i confessori, erano tutti in moto per trovare dei milioni a questa splendida creatura, che intanto ne spendeva in anticipazione la rendita. Giulia si mise a cucire di malavoglia una camiciolina da bimbo, dando certi punti lunghi, lunghi, spezzando il filo ogni momento, guardandosi ogni tanto nello specchio che aveva dirimpetto: e la flessuosa persona si chinava come un fiore, le lunghe ciglia castane ombreggiavano delicatamente le guancie, la bocca rossa sembrava un melagrano lucido, succoso. Chiarina Althan, accanto a lei, tagliava in un pezzo di cotonina bianca e rosea, un grembialino da bimba; e la finissima fisonomia, non bella, ma traspirante intelligenza, gli occhi calmi ma profondi, la bocca pensosa, si curvava sulla stoffa, pieni di attenzione e d’interesse, come per leggere un libro o per ammirare un quadro. Intanto Eva si era messa al suo posto e impuntiva l’orlo di certe fascie, a lunghi punti, canticchiando, mentre Tecla Brancaccio a grandi colpi di forbici stridenti, buttava in terra il pezzo che superava dal piccolo materasso che trapuntiva. Le due sorelline Sannicandro entrarono, tenendosi a braccetto: erano due statuine di porcellana bianca colorata di rosa, due bambolette gentiline, rotonde, con certi nasetti all’insù, i capelli ricci e l’aria infantile, malgrado che avessero quindici anni. E subito recitarono la lezioncina, come bambole ben ammaestrate.