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telegrafi dello stato 51


farla riposare, un po’ registrando i dispacci, classificandoli, facendo tutto il servizio di segreteria. Fra le coppie di hughiste, ambedue egualmente responsabili della linea, vi erano questi brevi dialoghi, senza lasciar di trasmettere e di scrivere.

— Quanti ce ne sono ancora?

— Quarantatre.

— E che ritardo?.

— Due ore e cinquanta.

— Madonna Santissima! —

Sulla linea poi, col corrispondente:

— Quanti ne avete?

— Sessantaquattro — era la risposta recisa.

Esse impallidivano. La moltiplicazione dei telegrammi era miracolosa, tutti telegrafavano, ora. Si era dovuto attivare un quinto filo con Roma e — onore insperato — lo aveva la Sezione Femminile, che sin’allora non aveva mai corrisposto con la capitale. A quel filo, macchina Morse, si riceveva soltanto: vi era stata messa quella che riceveva meglio, la Borrelli. Con le lenti fortemente piantate sul naso, una gamba incavalcata sull’altra, come un uomo, con un movimento nervoso della bocca, senza mai levar la testa, senza muoversi, senza voltarsi, ella riceveva sempre, indovinando le parole dalla prima sillaba, finendo di scrivere il telegramma, prima che il corrispondente finisse di trasmetterlo. Dopo averne ricevuti quindici o venti, ella lo interrogava:

— Ne avete molti, ancora!

— Moltissimi.

— Quanti saranno?