Pagina:Serao - Il romanzo della fanciulla, R. Bemporad & figlio, Firenze, 1921.djvu/50

46 telegrafi dello stato


zelo delle ausiliarie, per sapere se volessero prestarsi a un servizio straordinario, di due, tre, quattro ore, oltre le sette del servizio ordinario: che tutte quelle che volessero dare questa prova di amore al lavoro, si firmassero sotto quella carta; che si lasciava, per questo, intiera libertà, non volendo obbligare nessuno. — Questo editto era stato letto in forma solenne, alle due e mezzo, innanzi tutte le ausiliarie riunite, presenti direttrice e vice-direttrice. Le fanciulle ascoltavano, trasognate, con la sensazione di un grosso colpo nella testa, incapaci di decidersi: vi era tempo due giorni. E il fermento di ribellione nacque subito, si sviluppò in ufficio, nella strada, nelle case. No, non volevano prestar servizio straordinario. Era una oppressione, un martirio anche quell’ordinario: farne dell’altro? Niente affatto. Perchè, per chi? Le trattavano come tante bestie da soma, con quei tre miserabili franchi al giorno, scemati dalle tasse, dalle multe, dai giorni di malattia: e invece, esse avevano quasi tutte il diploma di grado superiore e al telegrafo prestavano servizio come uomini, come impiegati di seconda classe, che avevano duecentocinquanta lire il mese. Farsi un merito? Ma che, ma che! Chi le avrebbe considerate? Non erano nominate nè con decreto regio, nè con decreto ministeriale: un semplice decreto del direttore generale, revocabile da un momento all’altro. Se le telegrafiste facevano cattiva prova, le potevan rimandare a casa, tutte, senza che avessero diritto di lagnarsi. L’avvenire? Quale avvenire? Erano fuori pianta, non avevano da aspettar pensione: anzi, diceva il regolamento, che a quarant’anni il Governo le