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telegrafi dello stato 43


loro salvazione. Ogni volta che la direttrice apriva la bocca, trasalivano: ma ella diceva due o tre parole, come se facesse una obbiezione, che il direttore subito ribatteva, ricominciando la sua perorazione. Alle otto e cinquanta, Caterina Borrelli, non potendone più, disse sottovoce:

— Al diavolo Galvani, Volta, la bottiglia di Leyda la pila di Danieli, il solfato di rame e la emancipazione della donna....

— Aquila dà la buona notte, — disse Adelina Markò, forte.

— Rispondetegli subito che va male il suo orologio, che mancano dieci minuti alle nove, che per sua regola non si permetta più di dare la buona notte, e che l’aspetti da Napoli, — ribattè il direttore.

Otto e cinquantacinque. Addosso a tutte quelle fanciulle era piombata la grande stanchezza finale, l’aridità di sette ore passate in ufficio, a compire un lavoro scarso e ingrato. Stavano immote, senza aver più neanche la forza di levarsi su, per andarsene: avevano intensamente desiderata quell’ora delle nove, si erano consumate in quel desiderio e adesso, esaurite, senza vibrazioni nervose, stracche morte dall’aspettazione, dall’ozio e dalle chiacchiere vane, non desideravano più niente. Quelle che dovevano ritirarsi a casa, pensavano alla cena e al letto, con un bisogno tutto animale di mangiare un boccone e di sdraiarsi: quelle che dovevano recarsi al teatro, a ballare sfinite, esauste, spezzate in tutte le giunture, non avevano più nessuna vanità, non provavano più nessun stimolo.