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telegrafi dello stato 33


— Sì! A quell’ora? Con tutta la buona volontà, sono così stanca, che ho un solo desiderio: dormire. O Achard, il lavoro mi è piaciuto sempre, anche per portare a casa quei quattrini, per sollevare papà che ha l’asma, dalla soverchia fatica, per confortare mammà che ha perso la salute coi figli; ma questa è una vita troppo dura. Quando tutti si godono la festa, noi in ufficio: il Padre Eterno si è riposato il settimo giorno, e noi non riposiamo mai. Se cadiamo ammalate e manchiamo all’ufficio, ci trattengono le giornate alla fine del mese, come non si fa colle serve; se manchiamo per volontà, non ci pagano e ci sgridano. Noi non sappiamo più che siano: Pasqua, Natale, Carnevale. Ci dànno le ottantaquattro lire, alla fine del mese? E tutto questo lavoro? Niente, niente, questa è la schiavitù.

— Perchè non hai fatto la maestra? — domandò l’Achard, dopo aver sospirato.

— Ero troppo stupida, — disse Maria chinando il capo, — facevo sempre degli errori di ortografia nel compito di lingua italiana e non capivo l’aritmetica.

— E che vuoi farci, allora? Pazienza ci vuole. O Natale o un altro giorno, non è la stessa cosa? Poi chi soffre per un dolore, chi per un altro.

— Anche tu, povera Achard, avrai dei guai. La matrigna ti tormenta?

— No, no, — disse quella subito, ma con voce tremante, — la matrigna è buona.

— Non hai un fratello militare?

— Sì, a Pavia.

— È venuto in permesso?

3 — Il Romanzo della Fanciulla.