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30 telegrafi dello stato


E Faraone, tranquilla, con la voce strascicata:

— Si va bene con Reggio: non vi è niente. —

La direttrice non si accorgeva di nulla. Scriveva una lettera a una sua compagna di scuola, che ora faceva la maestra rurale, in un piccolo villaggio del Molise. Le augurava buon capodanno, ricordandole i bei tempi del convitto, dicendole che era contenta del suo posto: pure la lettera era malinconica. Anche su lei, povera donna, cadeva la stessa tristezza di tutte quelle fanciulle, riunite a far nulla in uno stanzone in penombra, innanzi a una macchina silenziosa, nel giorno sacro di Natale, mentre i parenti, i cari, gli amici erano riuniti a pranzo, a giuocar la tombola e si preparavano per un ballonzolo famigliare. Ella stessa che non aveva più nessuno, sola al mondo, era presa da una nostalgia della casa, delle persone amate. Levava la testa e guardava tutte quelle ragazze immobili, chi sonnecchiando, chi con la fronte fra le mani, chi discorrendo con la vicina a voce bassa, e non le sgridava più, sentendo la mestizia di quelle lunghe ore fredde scendere su quella gioventù: non le sgridava: le nasceva in cuore una pietà profonda di loro, di sé medesima.

Maria Vitale, starnutò due volte.

— Salute, — le disse, lieve lieve, la voce di Clemenza Achard.

— Grazie, — e si soffiò fortemente il naso, — sei qui tu? Neppure ti avevo visto. Non sei dell’altro turno?

— Ho dato il cambio a Serafina Casale, che preferiva venir di mattina essendo Natale.

— E ti sei sacrificata tu?