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telegrafi dello stato 27


De Notaris strideva, trasmettendo a Potenza le parole del dispaccio.

E dopo:

— Che ore sono? — domandò la De Notaris.

— Le diciassette e trenta, — mormorò lieve lieve, Clemenza Achard, la sua vicina.

— Le diciassette e trentuno, — gridò Ida Torelli.

— Grazie, — disse la De Notaris, e segnò l’ora sul dispaccio trasmesso.

Cioè le cinque e mezza. Era notte da mezz’ora: eppure per arrivare alle nove, ci volevano altre tre ore e mezza. Erano state accese le fiammelle di gas, ma visto che non vi era lavoro, la direttrice aveva dato ordine che si abbassassero: il direttore predicava sempre l’economia del gas. Così in quella penombra, poco si poteva leggere e poco fare l’uncinetto: le ombre delle macchine si profilavano stranamente sui tavolini, con la loro ruota dove si svolgeva la carta, col piccolo braccio movibile di acciaio, con la chiave per dare la corda che pareva l’elsa a croce di una spada. Qualche punto lucido, qua e là: la campanella di vetro che proteggeva il piccolo parafulmine; il bottoncino di un tasto; gli orecchini di strass di Olimpia Faraone; gli spilloni di pastiglii nera, che Ida Torelli portava nei capelli biondi. Silenzio profondo: non potendo né scrivere, né leggere, né ricamare, le ragazze pensavano.

— Che voleva poi, Napoli-Chiaia, da voi, Torelli? — domandò la direttrice dal suo posto.

— Niente, direttrice: abbiamo scambiato un niente.

— Vi ha parlato, dopo?

— Sì: ha detto che era Natale e che si seccava.