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16 telegrafi dello stato


— Direttrice, era un telegramma — disse Caterina Borrelli, con la sua improntitudine.

— Che telegramma? –

— E toltolo dinanzi ad Annina Pescara, la direttrice lo lesse. Le ausiliarie che erano ritornate, tutte umiliate ai loro posti, la guardavano per leggere sul suo viso monacale, l’impressione di quel telegramma amoroso. Ma ella non fece atto di nulla, e, voltate le spalle, andò a buttare il telegramma nella buca della porta, che divideva la sezione maschile dalla femminile. Ritornando, si fermò in mezzo alla stanza e disse severamente:

— Signorine, ho creduto sempre di esser qui a dirigere un ufficio di fanciulle serie, di impiegate solerti che dimentichino, in questo luogo, la storditaggine e l’imprudenza giovanile. Vedo di essermi ingannata, vedo che un nulla, una scempiaggine vi distrae, v’interessa, vi fa abbandonare il lavoro. Se non mettete giudizio, le cose andranno male. Ricordatevi, signorine, che con giuramento avete promesso di non rivelare il segreto telegrafico: il miglior mezzo, è di non interessarvi punto a quello che i privati scrivono nei dispacci. Siamo intese, per un’altra volta. —

Un silenzio profondo: nessuno osava rispondere. Ella aveva parlato lentamente e senza riscaldarsi, senza guardare in volto a nessuna, con gli occhi abbassati. Ella non era cattiva, ma sentiva moltissimo la sua responsabilità e tremava continuamente che la sua sezione sfigurasse innanzi ai superiori. Profondo silenzio, penoso: tutte pensavano, non riprendevano le loro occupazioni, come intorpidite. Solo il tasto della