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formate sotto le palpebre; le labbra erano passate dal rosso al rosa, dal rosa al violetto pallidissimo, delicato. Ancora le guancie conservavano una finezza elegante e la carnagione sulle tempie, intorno alle orecchie, era bianca e trasparente come la porcellana; ma quello che invecchiava quel volto, senza rimedio, non era la radezza dei capelli male dissimulata, non era la magrezza del collo, erano quelle due borse di pelle floscia, come morte, già tinte dei colori della corruzione e della decomposizione. Le mani che lavoravano alla calza conservavano la loro bellezza, ma già i polsi avevano certe sottili rughe, che ne aggrinzivano la pelle; la cintura era ancora sottile, ma un segno infallibile della vecchiaia era il taglio dell’abito, molle e piatto sul petto, corto di vita, largo sui fianchi, quel taglio tutto fantastico ma tutto speciale della vecchia zitella; il segno della vecchiaia era in quelle scarpette di marocchino nero, quadrate in punta, annodate coi nastri di seta nera, col tacco largo e basso, che non facevano rumore nel camminare.

Di nuovo, il fischio di Federico Mastrocola risuonò, dolcissimo: uno zufolìo gli rispose: alla loggetta di Chiarina Oliver, una personcina bionda era comparsa, tutta inondata di sole, ammiccando con gli occhi azzurri: era Emma Sticco che tutti chiamavano Mimì, per la sua gentile bellezza. Dietro a lei, Chiarina Oliver s’intravedeva, seduta, china sul suo lavoro all’uncinetto, una grande coperta fatta tutta di stelle; la si vedeva, occupata solo dal suo lavoro, disinteressata da quello che poteva fare fuori della loggetta, Mimì