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telegrafi dello stato 19


invidie di uffizio, un zittìo passò: entrava la direttrice. Subito, in coro, a voci digradanti, più basse, più alte, acute, lente, frettolose o in ritardo, queste parole si udirono:

— Buon giorno, direttrice. —

Ella salutava col capo, con un sorriso amabile sulle labbra di rosa morta. I fini capelli di un biondo cinereo erano tirati indietro, precisamente, non uno fuori di posto: tutto il volto aveva la grassezza molle, il pallore di avorio delle zitelle trentenni, vissute in monastero o in educandato, in una castità naturale di temperamento e di fantasia. In verità, ella aveva qualche cosa di claustrale in tutto; nel vestito di casimiro nero, nel goletto bianco, nella cautela del passo, nella bassezza della voce, nella morbidezza delle mani che pareva si dovessero congiungere solo per la preghiera, nella limpidezza inespressiva degli occhi bigi, in certi reclinamenti del capo, per pensare. Ella toglieva i guanti e il mantello, chetamente, e guardava le ragazze, osservando che Ida Torelli non aveva il busto, al solito, che Peppina De Notaris portava un anello al dito mignolo, che Olimpia Faraone portava troppa veloutine sul viso. Le ausiliarie si davano un contegno disinvolto, ma si sentivano sotto quello sguardo freddo e l’imbarazzo le vinceva. Ella entrò nel salone delle macchine e si sedette al suo posto, dietro la scrivania, scrivendo in certi suoi registri, pian piano, con la testa inclinata, come si farebbe il compito di scuola.

— Burrasca, in direzione, — disse Caterina Borrelli, rialzandosi le lenti sul naso rincagnato.

Le ausiliarie si trattenevano ancora in anticamera,