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18 telegrafi dello stato


l’una disprezzava l’altra, e l’altra sentiva il disprezzo. Queste galeotte del lavoro non si lagnavano ad alta voce, per superbia; ma se ne stavano ognuna in un cantuccio, imbronciate, senza parlarsi e senza guardarsi. Maria Morra si ripassava la parte di Paolina nei Nostri buoni villici che doveva recitare, da filodrammatica, al teatro di San Ferdinando; la sua compagna, Sofia Magliano, una brunetta, dal lungo viso caprino, covava il dispetto, lavorando a una sua stella, all’uncinetto; Serafina Casale, piccola, fredda, orgogliosa, pallida e taciturna, prendeva del citrato di ferro dentro un’ostia, per guarire dall’anemia che la minava; e Annina Pescara aveva la bella faccia rotonda tutta conturbata dall’idea di dover lavorare con quella noiosa di Serafina Casale.

In un angolo scuro, Giulietta Scarano pregava e supplicava l’inserviente, Gaetanina Galante, che le facesse questo favore, per amore della Madonna, che mandasse per qualcuno la lettera a Mimì. La Galante diceva di no, protestando che di codesti affari non si voleva più mischiare, che aveva avuti troppi dispiaceri, che le ausiliarie erano tante sconoscenti, che lei, l’inserviente, valeva molto meglio di tante che portavano superbia, perchè erano impiegate alle macchine e poi dovevano umiliarsi a lei, per ogni genere di favori. Giulietta Scarano impallidiva, le tremava la voce innanzi a quella serva che la torturava, con un rifiuto villano, affogato in un profluvio di trivialità: giunse sino a prenderle la mano, raccomandandosi.

A un tratto, sulle voci irose, lamentose e strascicate nella noia, sugli sfoghi dei rancori amorosi e di