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telegrafi dello stato 17


niente! Ho l’emicrania, io: vedrai che lite, oggi, fra me e il corrispondente, se non ara diritto!

— Ma come le viene in mente alla direttrice, di consegnarmi Avellino? — esclamava Ida Torelli, la seconda sorella. — Io con quel vecchione del corrispondente, non posso lavorare: figurati, cara Markò, una mummia di settant’anni, che non può soffrire la sezione femminile. Lo chiamate, non risponde: dopo un’ora, vi chiama precipitosamente e vi fa una sfuriata. A ogni parola trasmessa, interrompe: a ogni dispaccio, chiede spiegazioni. È irascibile, cocciuto e insolente: una linea da crepare.

— Io sto con Genova, — rispondeva la Markò, con una voce che pareva un canto, — il che non è divertente. La linea è così lunga che la pila non basta mai: la corrente è variabilissima: ora forte forte, che unisce e confonde tutti i segni, ora tanto debole che i segni non arrivano. Chiami il corrispondente, non ti sente: ti chiama lui, non lo senti. Corrispondi per dieci minuti bene e respiri. Che! All’undecimo minuto la linea si guasta. I dispacci crescono: il ritardo è sempre di tre ore. —

Le più scontente erano le hughiste, le migliori ausiliarie che avevano imparato a lavorare sulla macchina stampante Hughes. Vi si lavora in due a questa macchina complicata, che pare un cembalo: e vi è bisogno di forza e di attenzione in ambedue le impiegate. Ora in queste coppie, la direttrice non univa mai due che fossero amiche, per impedire il soverchio chiacchiericcio; univa sempre una brava a una più debolina. Così queste coppie mancavano di simpatia fra loro:

2 — Il Romanzo della Fanciulla.