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per monaca 119


Anna Doria, buttata coi gomiti sopra una sedia, con la testa fra le mani, presa da una crisi nervosa di malinconìa, pregava, stringendosi alle labbra il rosario; quella rinunzia di Eva alla vita, quel distacco da tutte le cose umane, persone e sentimenti, quella morte volontaria del cuore cristiano che aborre il suicidio, aborre il mondo e solo a Dio si volge, le parevano la fine della propria vita, le pareva che ella stessa, Anna Doria, a trentacinque anni, senza bellezza, senza speranza, senz’affetti, senza avvenire, non avesse altro scampo che andarsi a chiudere in un monastero. Col capo abbassato, in un assorbimento doloroso, Giovannella Sersale non aveva il coraggio di pregare, la sua anima era immersa nel peccato, ella amava il peccato, ella non aveva il coraggio di salvarsi dal peccato, ella era indegna di pregare, indegna di inginocchiarsi innanzi a Dio, giammai la misericordia divina poteva perdonarle: oh Eva, lassù, che aveva appoggiato il crocifisso di argento al petto, era scampata dalla tempesta, era in salvo, aveva rinunziato, ma lei, Giovannella non poteva, no, doveva perdersi, doveva morire nel peccato. Accanto a Maria Sannicandro Gullì, che pregava, decorosamente, per colei che fuggiva le vane pompe e anziché dare spettacolo del suo dolore, si nascondeva per sempre in una clausura, Giulia Capece pregava, ringraziando il Signore che le aveva fatto la grazia; fra due mesi ella partiva per l’Inghilterra, ella sposava un vecchio lord, Napoli era ormai troppo lugubre, le ragazze vi morivano o vi si facevano monache, le spose morivano o fuggivano come Maria di Miradois, le avventuriere sposavano i principi; Giu-