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118 per monaca


la duchessa aveva teso la faccia, ma si rigettò indietro, come pentita. La novizia s’inginocchiò, fra le due matrine: il cardinale Riario Sforza cominciò la messa, lentamente, muovendo a stento la persona che l’età e l’ascetismo avevano mal ridotta. Gli uomini, ritti, avevano l’aria inebetita di coloro che sentono la solennità di una funzione e non osano abbandonarsi a quella emozione: solo, qualche vecchio, il duca d’Aragona, il duca di Cantelmo, il duca di Isernia, colpiti da poco da sventura, osavano chinare la testa, essi a cui la fede era rientrata in core, con la sciagura. Invece dall’altra parte, le signore pregavano, inginocchiate, abbandonandosi, in quell’ora mistica, ai loro sentimenti, afferrando avidamente quell’ora di raccoglimento. Tecla Brancaccio, la forte e dura volontà, l’animo coraggioso, guardava Eva Muscettola, chinava la testa e pregava: ella, ostinata, ferrea, nella lotta con Maria di Miradois aveva vinto, la spagnuola era ripartita per Barcellona, Carlo Mottola si era deciso a sposare Tecla, di mala voglia, bruciando ancora della vecchia passione. Tecla aveva vinto, penosamente, dolorosamente: ma Eva all’altar maggiore, vestita di bianco come una sposa, tenendo in una mano una candela accesa, nell’altra una croce d’argento, avendo abbandonato i fiori e il libro di preghiere. Eva, la bella e la buona aveva perduto, era stata vinta; e Tecla, umilmente, ignorando il grande segreto di Eva, ma intuendone lo spasimo, pregava, pregava per i vinti come per i vincitori, per donna Maria di Miradois come per sè, per la povera Eva come per coloro, gli ignoti, che l’avevano contristata irrimediabilmente.