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per monaca 117


carsi all’altar maggiore. Ella era vestita di un lunghissimo abito di broccato bianco; sui riccioli castani un velo bianco amplissimo, che l’avvolgeva tutta; grossi orecchini di brillanti scintillavano alle orecchie delicate, un ricco fermaglio al collo, una fibbia alla cintura; le mani, guantate di bianco, portavano un mazzolino di fiori d’arancio e un libro di preghiere legato in velluto bianco. Ella era tutta candida, da capo a piedi, candido il bel volto giovanile. Teneva abbassati gli occhi, quasi chiusi, ma senza severità: una pace suprema era dipinta su quella faccia. Pace: non serenità. Non sorrideva, per cui non era serena. Le labbra pareva avessero respinto indietro il sorriso, per sempre: formavano una linea composta, che nulla poteva arcuare più, nel gaio riso della gioventù. Così il basso del volto che tutti avevano sempre visto commosso lietamente, dava a tutta la faccia come un subitaneo invecchiamento. Pareva un’altra: con la morte del sorriso, Eva Muscettola, la novizia, erasi trasformata. Un mormorìo nacque sul suo passaggio, qualche voce femminile disse, dolcemente, dolorosamente. «Eva, Eva, Eva» ma ella non si volse neppure, continuò la sua strada, come se nulla più potesse interessarla. Dietro di lei venivano le due matrine: — la principessa di Tricarico, la gran dama mistica e pietosa, un portamento regale, un viso impallidito dalle tribolazioni e dalle preghiere; e la duchessa della Mercede, una spagnuola, magra, alta, dalle labbra sottili, dagli occhi di carbonella, diritta e fiera. Quando fu all’altar maggiore Eva s’inchinò, fece il segno della croce, si accostò a sua madre, ma non l’abbracciò, le baciò la mano: