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compagnavano più, da quando il matrimonio d’Innico Althan con Eva era stato stabilito: lo spirito fine, acuto di Chiarina, sì trovava bene con l’anima sensibile e simpatica di Eva. Esse si misero a passeggiare su e giù, chiuse nei loro paltoncini oscuri, con la veletta abbassata sugli occhi, come due viaggiatrici pazienti.

— Che sciocchezza, il viaggio di nozze! — diceva Chiarina, guardando qualche viaggiatore che posava il suo bagaglio sul grande tavolone oscuro e usciva di nuovo, ubbidendo alla nervosità di coloro che partono, che nulla vale a calmare.

— Ma no, cara Chiarella, è tutta una poesia....

— Bah! Troppi alberghi, troppi camerieri indiscreti, troppe faccie estranee, un vagabondaggio inutile e noioso.

— Tu non lo faresti, il viaggio di nozze?

— No: già, io non ci entro.

— Ah! mi dimenticavo che non vuoi maritarti, o cognatella monaca. Perchè non vuoi maritarti, di’?

— Così.

— Ti farò maritare io. Chiarella, vedrai, vedrai.

— Tu ami il tuo prossimo come te stessa?

— Oh! — disse l’altra, arrossendo.

E andarono incontro ad Anna Doria che entrava, tutta sola, con le guancie cariche del rossetto che ella stessa componeva, con una veletta bianca, che cercava attenuare quel cremisino: quella sera aveva pensato d’ingrandirsi gli occhi, passandovi sotto un sughero bruciato: e pareva così bizzarra, così brutta, che la stessa buona Eva non potè trattenere un sorriso.

— Mamma aveva a pranzo un monsignore e due