andava alla morte. In preda a un invincibile turbamento, fra una bizzarra novella disperazione e fra un bizzarro disfacimento di tutta la sua volontà, Julian Sorel fremeva, udendo quel passo di animale, vigile, quasi inflessibile nella sua affettuosa persecuzione: avrebbe voluto fermarsi, batterlo, buttargli delle pietre, ucciderlo a calci nel ventre, ma l’idea di affrontare quei teneri occhi canini così impregnati di umana pietà, lo spauriva. Ah certo, certo, qualcuno lo guardava per quegli occhi! Non osava fissarli, quegli occhi di animale quasi che essi gli parlassero di tutte le bontà umane che egli aveva disdegnate, di tutte le sofferenze umane che egli aveva disprezzate, di tutte le umane lacrime che per lui erano scorse invano: non osava fissarli, quasi che vi si trovasse, in essi, il rimprovero ignoto, mistico e austero che fa la Vita a chi non seppe conoscerla e non seppe, quindi, meritarla. Chi lo guardava, per quegli occhi così profondi di compassione, chi piangeva ancora, su lui, sulla esistenza