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della maestra sentimentali, quelle di Alberto Sanna incerte e fluttuanti. Qua e là Lucia ne rileggeva qualcuna. L’album andava a prendere il suo posto. Apriva l’album suo, il più bello, il caro, l’amato: sopra una pagina era incollata una rosellina appassita, e sotto scrittovi un verso di Byron: sopra un’altra, una coroncina di violette mammole, e nel centro bianco una data, una fila di puntini sospensivi: altrove un profilo di donna, disegnato appena, nebuloso, accanto a cui era scritto: Clara. E alla rinfusa, fiori secchi, versi, pensieri, paesaggi, teste, un francobollo americano, uno scarabeo schiacciato contro la carta, due parole scritte con l’inchiostro dorato. Lei sorrideva o s’immalinconiva, sfogliandolo. Si staccava da quel tavolino con rammarico, non senza aver carezzato con le dita una tortuosa lucertolina di bronzo, dalla testina rizzata. Lucia aveva una grande inclinazione per le lucertole, i serpentelli e i rospi: li trovava belli, affascinanti e infelici.

Una bisogna lunga era il pianoforte verticale, carico di carte di musica. Passava lo strofinaccio sul piano lucido, socchiudendo gli occhi come se carezzasse il raso: passava lo strofinaccio sui tasti bianchi e neri, traendone suoni discordanti, quasi lamentosi, una musica informe che si dilettava di variare infinitamente. Lucia suonava mediocremente e poco; ma quando trovava qualche amica filarmonica, la metteva al pianoforte, si distendeva in una poltrona viennese a dondolo, inclinava il capo, socchiudeva gli occhi e ascoltava. Era una delle migliori e più estatiche ascoltatrici di