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parte seconda 87

magnetizzatrice sospesa sul capo, scagliandole l’anatema: un Mefistofele bello, grande, schiacciante. Ogni volta che guardava Margherita, Lucia si sentiva arrossire di desiderio. Ogni volta che guardava Mefistofele, Lucia impallidiva di paura. Desiderio vago e indistinto del peccato: paura vaga del castigo: lotta misteriosa che avveniva nelle profondità dello spirito. Era la mano di Lucia che aveva inciso, un po’ storto, un po’ tremante, col temperino, nel legno del piedestallo, lo scongiuro: et ne nos inducas in tentationem.

Al tavolino basso, dove posavano gli albums, Lucia si sedeva, poichè la stanchezza era crescente. Apriva l’album delle fotografie, poche, di amiche, di parenti, di amici, tre o quattro giovinotti. Tra questi, per singolarità, era una vecchia e ingiallita fotografia di Petöfì Sandor, il poeta ungherese che s’innamorò di una fanciulla morta. Lucia non lo poteva guardare senza che le venissero le lagrime negli occhi, sognando quell’amore così strano, così doloroso, e così funebre. Chiudeva il libro, lo ripuliva, lo metteva al posto. Apriva quello delle confessioni, dove varie pagine erano scritte, da Lucia, dal poeta inedito, dalla maestra di tedesco, da Caterina, dal professore di storia, da un grand’uomo di passaggio, da Giovanna Casacalenda, da Alberto Sanna e da pochi altri. Alle domande stravaganti erano scritte di contro le più stupide risposte — e le più stravaganti. Quelle di Giovanna erano sciocche, quelle di Lucia fantasiose e folli, quelle di Caterina posate e oneste, quelle del professore fantasiose e folli, quelle del grand’uomo insolenti, quelle