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cate sui polsi nudi, un immenso fazzoletto di tela bianca come strofinaccio, Lucia Altimare, licenziata la cameriera, toglieva la polvere nel suo quartierino (una camera e un salottino), ove suo padre la lasciava vivere liberamente.

Quella pulizia che compiva metodicamente, sempre alla istessa ora, dopo essersi vestita e aver pregato, era per lei un godimento squisito. Prima di tutto le pareva di fare opera utile e pia, piegando il suo forte orgoglio e le sue deboli forze a un lavoro manuale. Al momento di tòrre la polvere dai mobili, ella diceva a Giulietta con un senso di condiscendenza:

— Andatevene pure: faccio da me.

— Ma signorina... — obbiettava l’altra.

— No, no, lasciatemi fare.

E le pareva ancora di essere umanamente buona con Giulietta risparmiandole una fatica e mostrandole che non disdegnava di scendere a quelle opere servili.

— Davanti a Dio siamo tutti uguali. Se potessi reggervi, io spazzerei e rifarei il letto; ma sono così malaticcia! Se mi curvo troppo, mi prende la palpitazione — pensava, annodando un grembiule nero e rialzando lo strascico della sua veste da camera di stoffa turca.

Ma il piacere più fine, quello che più scuoteva i suoi nervi vibranti, che più faceva fremere la sua sensibilità squisita, era quel fermarsi lungamente a ogni oggetto che entrasse nella sua vita, a riandare così sui giorni passati, a misurare l’avvenire, a passare da un sogno all’altro, a fantasticare.