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il suo aspetto lugubre: le pugna chiuse nelle taschette del grembiule, i gomiti serrati ai fianchi, una ruga che le attraversava la fronte, le labbra assottigliate. Carolina Pentasuglia, la piccola, bionda e poetica innamorata, diceva a Ginevra Avigliana che avrebbe voluto trovarsi lassù, nella Danimarca, su quel tetro, nebbioso e tempestoso mare del nord, su quelle spiaggie deserte dove soffia fra gli abeti il vento aquilonare. Perfino Cherubina Friscia si scordava di spiare i discorsi delle educande, e con le mani inerti, l’occhio vagante, pensava una vita intiera da passare in collegio, sempre chiusa, senza parenti, senza amici, povera zitellona vergine, odiata dalle fanciulle.

— Credo — diceva piano Lucia a Caterina — che mio padre voglia ammogliarsi di nuovo. Non ha osato farlo prima; ma la pazienza umana è una cosa così fragile! Egli è mondano, mio padre. Non m’intende: la mia presenza lo attrista. Egli avrebbe bisogno di una gaia spensierata fanciulla che gli rallegrasse la casa. Non sono io quella.

— E che farai? qualche cosa dovrai pur fare, Lucia.

— Sì, qualche cosa farò.... non per me, ma per gli altri. Le grandi istituzioni hanno bisogno di grandi sacrifizi. Se fossi un uomo, andrei in Africa a esplorare le regioni sconosciute: se fossi uomo, diventerei monaco missionante nella Cina, nel Giappone, lontano, lontano. Ma sono donna, una debole e inutile donna.

— Potresti rimanere con tuo padre, intanto.

— No. Egli ha una gioventù ritardata e io ho una vecchiaia precoce. La mia presenza sarebbe un eterno