Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
parte prima | 31 |
si ammalava la loro precoce fantasia; non pensavano più a mormorare contro la direttrice e le maestre, eterno tema su cui ricamavano le variazioni più maligne. Diventavano schiette, allegre, infantili. Un giorno, in un impeto di gaiezza, Artemisia Minichini aveva costretta Cherubina Friscia a fare un giro di valtzer — ed era parsa una cosa buffa e naturale.
Ma dopo un quarto d’ora quella esaltazione cadeva dileguandosi a poco a poco. Si chetavano le risa, si abbassavano le voci, come timorose: alla corsa succedeva la passeggiata lenta e grave; si formavano le coppie, i terzetti, dove prima era un coro. E venivano alle labbra fioche e rade le parole — e tutte le pene soffocate di una vita, che vibrava già tutta, facevano curvare quelle teste nel tramonto di estate.
Lucia Altimare era ritta in piedi, presso il parapetto, guardando Napoli, ma come se non vedesse. La figura esile si disegnava sul cielo già sbiancato, e la linea sottile del profilo acquistava una purezza, una nitidezza elegante, che la faceva rassomigliare a un cammeo antico. Invero quei bruni capelli, tenuti un po’ alti, parevano un casco bruno. Accanto a lei stava Caterina Spaccapietra, guardando Napoli con i suoi trasparenti occhi grigi. Pareva pensosa, distratta; ma un momento che Lucia guardò giù, ella trasalì e fece un gesto come per trattenerla.
— Non temere, non mi butto più — disse Lucia Altimare con la sua voce bassa e debole, abbozzando un tenue sorriso. — Ero pazza la settimana scorsa, ma tu mi hai fatta rinsavire. Cioè non tu, ma Dio: