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376 fantasia


— Alza il mantice e portami a Centurano — disse ella al cocchiere, salendo in una carrozzella da nolo.

Soltanto, dinanzi al palazzo reale, solenne, silenzioso, tutto chiuso, quasi diventato pallido nella solitudine onde era stato colto di nuovo, ella si chinò a contemplarlo, vedendo sotto l’arco del grande portone una distesa di parco, e lontano lontano un nastro bianco che era la cascata. Ma subito si rigettò indietro e non cavò più fuori la testa per tutta la via. Cresceva il crepuscolo invernale, breve, intenso: una brezza freschissima passava sui campi seminati e fra gli alberi nudi.

Le ville di Centurano erano quasi tutte chiuse, salvo due o tre, dove i proprietarii abitavano di estate e di inverno. Le case dei coloni erano solamente illuminate. La sera veniva, d’un colpo solo. Matteo, che fumava la sua pipa, appoggiato all’arco del portone, non riconobbe Caterina che quando costei ebbe pagato il cocchiere e che costui voltò per andarsene dopo aver augurato la santa notte...

— O signorina... o signorina... — balbettava Matteo, tutto confuso, nascondendo dietro il dorso la sua pipa.

— Buona sera, Matteo. È aperto su?

— Ho qui le chiavi, signorina.

— Si può passarvi una notte?

— Certamente, signorina. È sempre tutto pronto, letti rifatti, stanze spazzate.

Preso un lume a olio dalla sua stanza a terreno, egli l’accompagnò per le scale, facendo tintinnare le chiavi.