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di due, di tre, di quattro, le grandi passeggiavano lentamente, discorrendo, fermandosi presso il parapetto, figure bianche su cui si staccava vivamente il grembiule di merino nero. Tre o quattro maestre andavano e venivano intente a qualche lavoro d’uncinetto, cogli occhi bassi e la fisonomia immobile, ma prestando orecchio attentamente. Quell’ora della ricreazione era la più aspettata della giornata e la più malinconica.

Quell’aria larga, quel vasto orizzonte che circondava quella fiumana di case che dal colle di Capodimonte, dove si ergeva il collegio, dilagava al mare, quell’aura di libertà, mettevano la tristezza in quei temperamenti giovanili, affoganti per esuberanza o ammiseriti per una precoce anemia. Tutte le mestizie segrete, tutte le tenerezze struggitrici, tutte le effusioni angosciose, tutte le aspirazioni indefinite, tutt’i bisogni di sospirare, di piangere, che la vita crescente mette nelle fanciulle, trovavano in quell’ora la loro espansione.

Salivano lassù le collegiali col desiderio dell’aria aperta, infinita, con l’ansietà del prigioniero che vorrebbe avere le ali: davano un grido di gioia, di liberazione, al trovarsi lassù, abbarbagliate, frementi, bevendo l’aria, bevendo la luce da tutti i pori Correvano le garrule parole, scoppiavano le risate, esse si rincorrevano come se avessero ancora dieci anni, esse, le grandi fanciulle di quindici e di diciotto: per poco non giuocavano di nuovo a capinnascondere. Non pensavano più alle conversazioni morbose dove