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parte quinta 371

quella noticina nella scrivania; prese dalla moneta spicciola una carta da dieci lire, la ripose nel suo piccolo portamonete di bulgaro, e chiuse la cassa forte. Così l’ordine di quello scrittoio era completo. Ella si riposò sopra una poltroncina, presa dalla stanchezza.

Ma un nuovo impulso di volontà la fece alzare: passò in un altro salotto, poi nel salone, di cui spalancò le finestre. La giornata splendida di dicembre entrò col suo cielo di un azzurro profondo, col suo bagliore di sole, con la sua aria tiepida. Caterina non aveva nulla da fare nel salone: solo, passando accanto a un balcone, accomodò armoniosamente le pieghe di una cortina; portò da una mensola all’altra due coppe di Murano, e si allontanò un momento, per giudicarne l’effetto. Come ebbe guardato tutto, con la gaia luce che illuminava il mobiglio di broccato grigio-perla a fiori rosso-corallo, i cristalli, le statuine, i gingilli delle mensole, essa richiuse le finestre, ribattè le imposte, e lasciò dietro di sè il salone e il salotto giallo immersi nell’oscurità.

Quando fu nella stanza da pranzo, Giulietta accorse, credendo che Caterina volesse prendere qualche cosa. Invece Caterina considerava le grandi credenze, calcolando mentalmente:

— Dal servizio di Baccarat, quanti bicchieri mancano, Giulietta?

— Manca uno di quei grandi per l’acqua e uno col peduccio, pel vino di Francia.

— Va bene: e di questo qui di Boemia?

— Uno solo: ma fu Monzù, con una gomitata, che lo buttò in aria.