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parte quinta | 355 |
sua dote. Era una zia fredda e onesta, senza figliuoli, che non si effondeva in espansioni, ma veniva puntualmente il giovedì al parlatorio, e la domenica se la portava fuori, al passeggio, al teatro diurno. Caterina si ricordava di quel primo anno di collegio, dove si trovava meglio che in casa sua, dove si abbandonava al piacere interiore, tutto quieto, di starsene fra le altre fanciulle, senza giuocare, ma vedendole giuocare, senza parlare, ma udendole parlare. Invero lo studio era un po’ duro per lei, ed ella doveva applicarsi molto per imparare; le maestre della prima classe le davano sempre il massimo dei punti per la condotta, ma punti mediocri per lo studio. Non era stata mai in castigo quel primo anno, e all’esame finale, fra ventotto, era stata la quindicesima: aveva avuto una medaglia d’argento per la buona condotta.
A questo punto cominciava il dualismo nella sua vita di collegio, poiché appariva Lucia, che aveva trovata nella seconda classe. Alunna meravigliosa che superava tutte le altre, fanciulla sottile, magra, dalle lunghe trecce nere che le pendevano sulle spalle, che passava due giorni in iscuola e i tre giorni all’infermeria, che era la carità della maestra insegnante, la carità della maestra assistente, la carità di tutte le sue compagne. Era una bambina malaticcia e pensierosa, i cui grandi occhioni pareva divorassero tutto il viso, che riusciva a tutto, senza aprire i libri. Molte fanciulle ambivano di avere la sua amicizia, ma un giorno ella, con la sua voce esile, aveva detto a Caterina:
— M’han detto che non avete nè mamma nè babbo: