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Caterina, in camera sua, aveva smorzato il lume, ma non si era spogliata. Aveva un insistente bisogno di ombra in cui chinare la faccia e pensare. Malgrado l’oscurità, vedeva il biancore del letto, che le faceva spavento. Se ne stava seduta, l’una mano sull’altra, posando la punta delle dita sull’anulare, dove due anelli erano infilati. Ogni tanto, quando le arrivava la sensazione di quel secondo anello, sussultava e gemeva in se stessa.

Così ricordava tutto il passato. La sua vita, uniforme e pacata, le si svolgeva dinanzi con una nettezza di particolari come se la rivivesse. Aveva avuto la mamma sino a sette anni, il papà sino a nove, era stata con sua zia sino a undici anni. Una infanzia tranquilla, salvo il dolore indistinto, informe, di quelle due morti, un dolore senza gridi e senza pianti. Si era sempre vergognata di piangere, quando la gente la vedeva: aveva pianto per i morti, di notte, nel suo letticciuolo di bimba, tirandosi il lenzuolo sulla testa. Dopo, in casa di sua zia, aveva avuto una grande malattia, molto complicata, molto pericolosa, tutto lo sfogo di quelle malattie che l’infanzia deve avere. Si ricordava che le avevan fatto fare la prima comunione in fretta e in furia, temendo che morisse. Ella non aveva capito nulla e non aveva provato una forte impressione: così da quella prima volta le era rimasta una pietà religiosa molto calma, senza entusiasmi mistici, ma rigorosa come per lei erano rigorosi tutti i suoi doveri.

Quando s’era guarita, la zia l’aveva posta in collegio, il primo di Napoli, e le aveva amministrato la