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bandonate e gialle quale la cera, su cui si gonfiavano le vene violacee. Caterina, nella penombra, sfogliava, sfogliava il giornale, macchinalmente, prima senza leggerlo, poi leggendo una frase qua e là, afferrando un’idea in mezzo alle lamentazioni fantastiche, trovando un fatto in mezzo alle divagazioni rettoriche, di cui era pieno quel manoscritto. A qualche punto trasaliva e smetteva di leggere, gittando il capo indietro. Egli, nel torpore, tossicchiava senza forza, senza aprire gli occhi. A un tratto, uno scoppio violento di tosse gli lacerò il petto: la tosse cominciava piano, strideva, si abbassava, pareva finita, ma ricominciava insistente, dura: nei brevi intervalli egli si lamentava, con un piccolo gemito, quasi non ne potesse più, tenendosi le costole. Poi sputò di nuovo: di nuovo fece quel gesto precipitoso per vedere. S’abbandonò, con un grido debole di dolore. Aveva sputato rosso. Ella aveva assistito a questa scena: quando vide il sangue, trasalì e chiuse gli occhi, come se svenisse.

— Dunque, non mi giovano queste medicine? Questo medico mi conta delle frottole, dunque? Perchè non la ristagna questa emottisi? Ho mangiato tanta neve, ho preso tanto sciroppo di codeina, tanto acido gallico, per ristagnare il sangue! L’ho da sputare tutto il sangue? Perchè non mi ha dato questa sera l’ergotina, invece di domani, se è una medicina più possente?

I suoi gemiti di ammalato empivano la stanza, assidui, rôchi, tormentosi: egli aveva quella intonazione speciale degli infermi, a cui pare si usi la più grave ingiustizia, non guarendoli. Seguitava a prendersela