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Caterina errò un poco con le mani sul tavolino da notte, non trovando quello che cercava. Quando gli versò la cucchiaiata, le sue dita tremavano. Egli bevette, la ringraziò, la guardò fiso, forse perchè quel tremore, quel silenzio e quella immobilità di lei cominciavano a colpirlo.

— Vi ha dovuto fare una grande impressione — mormorò. — Io era già sconvolto, mezzo morto, perchè avevo sputato certi fili di sangue. Subito avevo mandato pel medico, per Lucia, alla chiesa di santa Chiara.. Viene il medico, Lucia non viene. Non l’hanno trovata in chiesa. Mi dispero sempre più, vado, vengo, disordino tutta la casa. Quando ecco, arriva una lettera portata da un fattorino. L’apro, grido, cado per terra, mi mordo le mani e rompo un cristallo. Butto in aria mobili, tutto quanto ha appartenuto a Lucia. Se l’avessi potuta avere un minuto innanzi a me, ammalato, debole come sono, l’avrei strangolata. Dopo mi è venuto un impeto di tosse. Non ho sputato nulla. Poi un piccolo raschio: era rosso, rosso, rosso vivo, rosso fiammante. M’hanno ucciso, mi hanno ucciso...

La febbre della polmonite, che lo aveva accasciato in un sopore, sino al momento in cui era venuta Caterina, ora passava allo stadio acuto, crescendo di calore, salendogli dal petto infiammato alla testa, facendogli avvampare il cervello. Le sue idee, divenute incoerenti, si scomponevano.

— ... che è accaduto dopo? Non mi ricordo più. Vi ho mandata a chiamare, è venuto di nuovo il medico. Vedete che ho gittato a terra l’inginocchiatoio