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parte quinta | 341 |
accesa una lampada da notte, dietro un cristallo opaco, posta in modo che il letto rimanesse in ombra. Silenzio profondo. Solitudine. Un acuto odore di medicina saliva nell’aria, insieme a quel puzzo speciale delle stanze degli ammalati. Caterina, istintivamente, aguzzò gli occhi e si avanzò verso il letto. Alberto vi giaceva, lungo disteso, supino, appoggiando la testa e le spalle a una pila digradante di cuscini. Era vestito, ma aveva la camicia lacera sul petto e le gambe avvolte in uno scialle da donna. Accanto a lui, sul tavolino da notte, boccette, fiale, bicchieri, ostie, scatoline rosse di pillole, pacchetti di cartelline di medicamenti sventrate. Di sotto il cuscino spuntava un fazzoletto, il fazzoletto bianco dove lui sputava. Dalla parte dove Lucia dormiva, nella viottola, era arrovesciato l’inginocchiatoio.
Caterina si chinò sul letto. Egli aveva gli occhi chiusi, la bocca semiaperta, donde usciva un respiro corto e lieve: appena appena si sollevava il petto. Egli aprì gli occhi e, vedendola, gli si gonfiarono di lagrime. Le lagrime discesero, lente, per le guance sparute, caddero sul collo: la cameriera cavò il fazzoletto dal taschino del grembiule, e glielo passò sulla faccia. Egli le fece un cenno con la mano, come per ringraziarla e per licenziarla.
— Volete un pezzetto di neve, ancora?
— Sì — fu un soffio fievole.
La cameriera lo prese da una scodella e glielo mise in bocca.
— La cartellina... non è ora ancora?
— No: vattene.