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parte quinta 339


Discese le scale, entrò nella carrozza chiusa. Il cocchiere doveva essere stato avvisato da Giulietta, perchè non chiese indirizzo e si avviò per san Sebastiano. Caterina aveva posato lo scialle e il cappello dirimpetto a lei e, seduta in punta al cuscino, senza appoggiarsi, teneva ancora la mano sulla lettera, in saccoccia. Dai cristalli abbassati delle portiere entrava l’aria rigida: ella ne provava impressione, al collo, di malessere. Poi, non potette resistere e, al chiarore fugace dei lampioni a gas, rilesse, per la sesta volta, le parole di Lucia. Pel moto della carrozza, per le ombre subitanee che succedevano alle luci, le parole scritte balzavano avanti, indietro, sotto, sopra — e Caterina se le sentiva balzare dentro la testa, urtando la fronte, urtando la nuca, battendo alla tempia destra, battendo alla tempia sinistra.

Era un tempestìo di colpetti rapidi, un battito di tamburello sotto il cranio: ella crollava il capo, ogni tanto, come per vincere questa impressione. Piegò il foglio: l’impressione si attenuò, scomparve, e la stupefazione avvolse di nuovo quel cervello.

Ella salì lentamente le scale, portandosi bene stretto il suo scialle, per un moto macchinale. Trovò la porta aperta, spalancata: nell’anticamera la cameriera parlottava vivamente col servitore, puntando il suo discorso di gesti espressivi. Quando la videro entrare, pian piano, vestita da casa, senza cappello, senza guanti, tacquero. Poi, come ella si fermava, presa da una indecisione, non comprendendo dove fosse, non sapendo che cosa fosse venuta a fare, la cameriera le disse sottovoce:

— Il signore l’aspettava.