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338 | fantasia |
L’aprì, distratta, pensando a quello che era potuto accadere a Lucia. Lesse:
«O Caterina, pietà di me, o Caterina, abbi compassione, pietà, pietà, pietà! Sono una infelice. Parto con Andrea. Sono una creatura sventurata, non mi vedrai più. Soffro, spasimo, parto, muoio. Abbi pietà! — Lucia».
Lesse un’altra volta, rilesse, lesse per la quarta volta. Si sedette, accanto alla scrivania, con la lettera fra le mani. Era stupefatta.
— È attaccato — entrò a dire Giulietta.
Caterina chinò il capo, come se dicesse di avere inteso. Poi si rizzò: sotto i piedi sentì roteare il pavimento.
— Se mi muovo, cado — pensò.
Stette ferma: il capogiro crebbe, i mobili girarono attorno a lei, gli orecchi le fischiarono, una luce abbagliante le colpì gli occhi.
— Muoio, mi pare — pensò.
Ma il capogiro decrebbe, i giri diventarono sempre più larghi, sempre più lenti. Finì. Allora tornò a leggere la lettera. La ripose nella busta, se la mise in tasca, e vi tenne la mano sopra. Poi andò in camera, all’oscuro, prese il cappello, prese lo scialle, ma non se li mise. Li portava in mano, anche in anticamera.
— Tornate presto, signora? — domandò Giulietta.
Ella la guardò, trasognata.
— ... sì, credo.
— Al signore che gli dico?
— Vi è... sì, vi è un biglietto.