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parte quarta | 275 |
ciarle giù: ella si commuoveva, impallidiva. Quando era quel disgraziato Alberto che si frapponeva, con la sua personcina magra, la sua voce rauca, e i suoi colpetti di tosse, ad Andrea venivano certi impeti di afferrarlo alla vita e buttarlo per terra, di camminargli sopra coi piedi per schiacciarlo. Lucia vedeva passare questo soffio di follìa sulla faccia di Andrea e al primo gesto si faceva innanzi, sgomentata come per impedire una catastrofe. Allora egli prendeva il cappello e usciva, a piedi, pei campi, sotto il sole, a passo affrettato, stringendo i denti, coi muscoli tesi, coi nervi vibranti, andando, salutando macchinalmente la gente che incontrava, sorridendo anche senza vedere. Tornava tutto molle, tutto in sudore, fiaccato: dormiva profondamente il buon sonno di un tempo, un paio di ore, coi pugni chiusi, la testa sprofondata nei cuscini. Quando si svegliava, godeva un istante di felicità completa, il benessere del riposo goduto, l’equilibrio delle forze, ma subito il tarlo riprendeva il suo rosicchiamento e lui, piagnoloso come un fanciullo che si è svegliato troppo presto, pensava:
— O Dio, quanto sono infelice! Perchè mi sono svegliato, se sono così infelice?
Era invero un fanciullo nell’amore, senza molti ragionamenti, senza sottigliezze metafisiche, senza sofisticazioni malaticce, senza morbidezze sensuali. Amava Lucia e la voleva: ecco il suo scopo, chiaro, netto, preciso. Vedeva innanzi a sè la propria volontà, rigida e inflessibile, come un colpo di spada che trova la via del cuore. Sapeva di far male, sapeva di tradire, ve-