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ai principi. Ma erano attoscate quelle rose d’Imene; ma nell’erba molle di rugiada si celava il serpe, perfido emblema dei più perfidi Visconti. Ottenute le ricchezze di Beatrice, Filippo Maria, che altro non bramava, l’ebbe presto a noia, come ogni uomo di cuore arido e di costumi depravati ha costume di fare. Aveva anche annodato una turpe relazione con certa Agnese del Maino, donna quanto altra mai pessima; e vieppiù lo incalzava il desiderio di disfarsi della moglie. Eravi nella corte viscontea lo scudiero Michele Orombello, giovanetto trovatore, poeta, che aveva osato alzare gli occhi fino alla sua signora, di cui era perdutamente innamorato. Non corrispondeva l’onesta donna tale passione, sebbene la malafede e il tradimento di Filippo Maria infelicissima la rendessero, e quasi giustificassero un ricambio: solo si mostrava cortese allo sfortunato amadore. Di tutto accortosi Filippo Maria, fa subito incarcerare Michele Orombello e la casta sposa, accusandoli d’infedeltà. Sottoposta alla tortura, Beatrice resiste e si proclama innocente. Michele Orombello, o perchè più giovane e quindi più debole innanzi al dolore, o perchè consigliato perfidamente di confessare, per la salute di Beatrice, afferma.

«I giudici, servi vilissimi di Filippo Maria, e tremanti alla sua volontà, condannano al patibolo la più infelice fra le donne e il più sciagurato fra gli amanti. La pia donna sale al patibolo, rassegnata, baciando il crocifisso dove il Redentore agonizza e muore per i nostri peccati. Poi, visto il giovane scudiero che, piangente, disperato, sale con lei al supplizio, gli grida: