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gli spilloni di jais dalla capocchia rotonda nera, tutta martellata, e li puntò nel terreno, ficcandoli dentro in tutta la lunghezza, come in un cuscinetto da spille. Si tolse il cappellino e lo mandò a raggiungere i guanti e l’ombrellino. Poi si sollevò, si chinò sull’acque, ne prese nel cavo della mano e si bagnò la fronte, tutta ridente, le labbra infuocate e i capelli stillanti. Egli perdette la testa: si rizzò, grande, alto, robusto, l’abbracciò tenacemente alla vita, la fece scomparire nelle sue braccia, baciandola furiosamente sui capelli, sugli occhi, sul collo, sulle braccia, affogandola di baci, mangiandola coi baci, prendendosela coi baci. Ella si dibatteva, senza gridare, contorcendosi, convulsa, gli occhi sbarrati, serrando le labbra, riparandosi la faccia, i capelli mezzo disfatti.

— Lasciami.

— No, amore... no, amore...

— Lasciami, te ne scongiuro.

— O amore mio bello, amore mio immenso!

— Andrea, per l’amore che ti porto, lasciami.

Subito la lasciò. Ella affannava, la trina del goletto lacerata, una macchia rossa sul collo, i polsi rossi, trionfante, superba, guardandolo come una regina. Andrea, i sensi domati, i nervi tranquilli per quello sfogo di forza, i muscoli rilasciati, sorrideva, umiliato e beato.

Sedettero di nuovo sull’erba. Lei si distese, lunga, inarcando un braccio, passando una mano sotto la testa per non farle toccare la terra, guardando il cielo: Andrea, buttato di traverso, arrivando appena a sfiorare col capo un ginocchio di lei. Lucia guardava in cielo