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parte terza 239

di nero, prendeva delle zollette di terra con qualche filo di erba e le lanciava nel lago, seguendone il volo, guardando come si sfacevano nell’acqua, guardando i circoli concentrici che si allargavano come rughe diradantisi. Andrea era seduto accanto a lei, guardando quel collo bianco che si curvava, quel braccio che si inarcava, quelle dita che muovevano la terra. Egli aveva buttato altrove il cappello, lasciandosi cadere sulla fronte ardente l’umidore di quell’ambiente. Ella non si voltava, ma sembrava sentisse l’influenza di quegli occhi appassionati, perchè ogni tanto s’inclinava verso di lui, come se gli si abbandonasse. Egli non osava più muoversi, preso da una timidità affettuosa, da un intenerimento soave per quella donna fragile e seducente. Ella, stanca di gittare le zollette erbose nell’acqua, abbandonò una mano sull’erba. Andrea prese quella mano e pian piano cominciò a spuntare i bottoncini del guanto, sogguardandola, temendo d’irritarla. Nulla: Lucia socchiudeva gli occhi come se si addormentasse. Quando le ebbe tolto il guanto, egli sussultò come per un trionfo. Poi, distendendosi un poco, le prese l’altra mano e con la stessa dolcezza le tolse l’altro guanto. Li gittò sull’erba accanto al suo cappello, presso l’ombrellino. Ora le carezzava un braccio sotto la manica trasparente, una carezza lieve. Lucia si sottrasse a quella carezza, ma senza infastidirsi, senza sorridere: guardava l’acqua del lago, la Venere Anadiomene, attraverso la pioggia verde del salice. Poi lentamente, ella disfece il nodo di merletto del suo cappellino e rigettò le sciarpe indietro: si tolse