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parte terza 237

faccia mutata: un pensiero sulla fronte, negli occhi, sulle labbra. — E di là che cosa c’è, Andrea? — Venite a vedere.

Era qualche cosa che gli alberi celavano. Girarono intorno, vi andarono. Era una finta rovina di portico, otto o dieci colonne in due file, l’architettura greca, il tetto mezzo disfatto, con un buco fatto apposta dove l’erba cresceva folta. Le mura d’intonaco, come l’antico, si scrostavano, le edere mordevano realmente queste false rovine, dei sassi erano caduti. Sotto il portico una oscurità umida, un puzzo di muffa che dava un senso di freddo e di pena come in un sotterraneo.

— E questo che è, Andrea?

— La rovina di un portico.

— Vi doveva essere un tempio?

— Sì, quello di Venere.

— Venere che ogni notte discendeva dall’ara, per andare a bagnarsi nel lago — disse lei, fantasticando. — Una notte lunare, Diana, gelosa di lei, le ha fatto l’incanto e l’ha inchiodata nell’acqua. Venere non è più risalita nel tempio: il tempio, senza Dea, è caduto, è crollato. Vi è rimasto solo il portico, che crollerà anch’esso. Poiché eternamente, per l’incanto della luna, Venere è prigioniera tra le acque che le rodono i piedi e le alighe che le mordono i fianchi. Un giorno fatale il piedestallo rosicchiato rovinerà, e Venere, caduta, starà lungo distesa in fondo al lago, annegata, affogata.

Tacque.

— Parlate ancora, parlate — le susurrò Andrea,