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placida di sole, solamente il suo riflesso, attenuato e smorto. Nessun romore: la solitudine completa, la dimenticanza, l’angolo fresco e ignoto, che niuno sa, dove niuno viene. Appena appena una lontananza celeste, altissima, fra gli alberi.

Ella era rimasta stupefatta, sulla spiaggia.

— Come si chiama questo lago? — domandò ad Andrea, senza voltarsi.

— Il bagno di Venere.

— Perchè?

— Guardate là.

Dietro il salice piangente, dalle acque del laghetto, una statua di Venere sorgeva. Era tutta bianca, di marmo, di grandezza naturale, con la testa troppo piccola che hanno tutte le Veneri, belle di questa imperfezione. Aveva i capelli mezzo rialzati sulla nuca, mezzo cadenti sul collo. L’acqua le saliva sino alla cintura, nascondendone il basso del corpo; ma dentro l’acqua le erbe, le alighe crescenti avevano formato un piedestallo di verzura a quel busto bianco. La Venere si chinava a guardare l’acqua, l’occhio sereno, il collo pienotto, il seno immobile e gonfio di piacere, come se non si dolesse di quell’acqua, di quelle piante che salivano sul suo corpo, che la tenevano incatenata.

Era un’apparizione quella mezza statua femminile, quella forma bianca che di lontano, sul verde, sembrava il corpo nudo e palpitante di una donna che si bagnasse in quella penombra, sotto la custodia degli alberi, lontana dal mondo vivo, nel mondo dei fantasmi.

Quando Lucia si voltò verso Andrea, aveva la