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228 | fantasia |
dine nera della veste. Il cappello nero di trina era aggiustato come un velo spagnuolo, con certi spilloni martellati di jais nero. Ella, arrivata al punto dove doveva scegliere un sentiero, restò indecisa. Voltandosi indietro, vide il cancello chiuso e un pezzetto di parco; innanzi, la inclinazione seducente dei viali che s’abbassavano sotto il verde. Si avviò per uno, a caso, pianamente, rasentando una siepe di mirto, posando appena i tacchetti delle sue scarpette sul terreno fresco. Gli alberi formavano un arco di verdura che scendeva come quello di una grotta, formando, in fondo, un buco di luce, rotondo, lontano lontano. Ella se ne andava alla ventura, in quella penombra verde, lasciando che qualche foglia, caduta roteando da un albero, le si posasse sopra una spalla, fermandosi a guardare le lucertoline vivaci, dalla testa all’erta, dalla coduccia snella. Poi ripigliava la sua passeggiata col passo ritmico e uguale, la veste sfiorante la siepe, lo sguardo errante in quella solitudine piena di mormorii.
Alla fine del viale discendente si trovò in una piccola valle da cui salivano e scendevano sentierucci e viottole; nel mezzo un prato costellato di fiori; era una vallicciuola ombrosa, con le pendici cupe, tagliate dalle striscie gialle dei viali. Attorno gl’ippocastani, i cerri, gli eucaliptus, alti, sottili polverosi: solitudine completa. Ella discese ancora verso quel prato. A un tratto si fermò, a metà strada, spaventata, tremante, poiché Andrea le era sorto innanzi. Si guardarono negli occhi, senza parlare. Egli veniva di giù: ella gli doveva essere apparsa, scendente sulle nuvole, come una Ma-