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loro. Un praticello di verbene multicolori, sul fondo di un rosso vivissimo, era giudicato grazioso, di un effetto mignon, disse l’Aldemoresco. L’Altimare-Sanna, che la conosceva e con cui parlava, rispose che odiava le verbene. Invece lei propendeva molto per quelle rose muschiate, che formavano un cespuglio così profumato, rose grosse, polpute, scoppianti dai petali accartocciati. La duchessa di San Celso era anche dello stesso avviso, anzi prese una rosa e se la passò nella scollatura dell’abito, sulla pelle grinzosa del petto. Questo gruppo di signore, agitantesi, coi ventagli in moto, gli ombrellini che si aprivano e chiudevano, i merletti che svolazzavano, questo gruppo chiaro, donde uscivano risatine trillate e piccoli gridi di cingallegra in collera, si faceva a poco a poco una corte.

Vi era il più vecchio amante, il primo forse, della duchessa, anche lui tinti i capelli, il rossetto sui pomelli, il mustacchio di colore dubbio, incerato, le guance flosce e pendenti — e il giovane amante, bellissimo ma pallido, l’occhio nero e sfacciato, la bocca sensuale, nella sua eleganza di giovane povero, arricchito da una vecchia. Vi era Mimì d’Alemagna, venuto per la Cantelmo, e Ciccillo Filomarino, amante in pectore, venuto anche per lei — e altri e altri, per consenso, per diletto, per fare il chiasso. Il prefetto, in marsina, era sempre accanto alla duchessa. Questa gente, andava, veniva, ritornava, formando gruppetti, restando sempre unita, mandando un frastuono mondano e un odore di veloutine, sotto i tranquilli ippocastani.