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parte terza | 205 |
qualcuno di essi sente, attraverso la divisione di legno, il nitrito della giumenta e le risponde nitrendo e sferzando con la coda le pareti della box.
Di nuovo ella impallidì.
— È il sole ancora? — chiese lui.
— Ho caldo, ho caldo.
Vampate di sangue le salivano alla faccia per poi lasciarvi il più ardente pallore, un pallore di febbre. Ella cercava di inumidirsi le labbra col fazzoletto bagnato, poiché le sentiva arsiccie, come se le avesse ferite il vento di tramontana. Il braccio posato sopra quello di Andrea si appesantiva.
— Entriamo in questo grande edificio, signor Andrea? Almeno il sole non mi morsicherà più. Sapete che cosa sento? Una quantità di punture, fitte, sottili, minute, sotto la pelle, come aghi che volessero uscirne. Al fresco finiranno, credo.
Entrarono nel caseggiato: una specie di vasto granaio terreno, col tetto spiovente, dove ogni specie di animali domestici si agitava nelle gabbie e nelle casupole. I conigli, gravi, bianchi, col musetto roseo, col loro comico tender d’orecchi, stavano accovacciati come un batuffolo di bambagia, in fondo alle conigliere. Bisognava chinarsi per vederli bene, ma subito essi si arretravano spaventati, non sapendo dove scappare, perdendo la testa. Le galline avevano tutto un lungo compartimento, una gran cassa a graticciata, divisa in tante casette. Stavano ferme, grasse, grosse, l’occhio tondo vivissimo, ogni tanto scomparente sotto la cartilagine giallastra e floscia, dando con la testa contro le pareti,