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parte terza 201


Andavano per un gran viale d’ippocastani: il sole metteva in terra dei cerchielli di luce bionda. Un acuto odore di menta e di acetosella si arrestava nell’aria immobile. L’ora si faceva calda. Qualcuno passava, sventolandosi col cappello di paglia sulla faccia arrossita dal calore: le signore agitavano i ventagli, camminando piano, vinte, intorpidite dalla pesantezza dell’aria. Essi non si dicevano motto, guardando per terra come due che si secchino molto. Voltarono: trovarono la prima sezione. Era un prato lunghissimo, molto largo, un rettangolo, intorno a cui girava il viale. E circondato da uno stecconato forte, a mezza persona, e diviso in tanti compartimenti, per ogni animale. Vi era una piccola rastrelliera per ogni capo di bestia e un anello di ferro a cui era attaccata la corda; tutte queste bestie, tranquille, immote, avevano il capo rivolto verso chi guardava. Venivano prima le vacche, con la testa di animale stupido e buono, l’occhio mansueto, i fianchi magri da cui spuntavano le ossa.

— Povere bestie — disse lei sottovoce — come sono brutte.

— Brutte, ma utili. È un animale robusto, preferibile quando è magro, perchè dà miglior latte, che si ammala difficilmente e rende il cinquecento per cento del suo valore.

— Voi amate le bestie?

— Sì, molto: quelle forti, utili e buone. Noi uomini non riuniamo spesso queste qualità.

— Ma abbiamo l’intelligenza.

— E l’egoismo.