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10 | fantasia |
Friscia, la maestra assistente, senza levare gli occhi dall’uncinetto.
— Friscia, voi non avete caldo? — chiese insolentemente la Minichini.
— No.
— Beata voi che siete insensibile.
Nella classe dove le signorine tricolori prendevano la loro lezione di Storia d’Italia, il meriggio afoso si faceva sentire. Due finestre sul giardino, una porta sul corridoio, tre file di banchi, e venti alunne. Sopra una predella alta, la scrivania e la poltrona del professore. I ventaglini si agitavano, dove vivamente, dove con un movimento stracco. Qualche testa si chinava sul libro, come insonnolita. Ginevra Avigliana guardava il professore, fisamente, approvando col capo, mentre il volto aveva la espressione della distrazione. La Minichini, posato il ventaglio, aveva aperto l’occhialino e guardava sfacciatamente il professore col naso in aria, una ciocca di capelli arricciata sulla fronte, ridendo di quel suo riso muto che irritava le maestre.
Il professore spiegava la lezione a voce bassa. Era piccolo, magro, meschino: poteva avere un trentadue anni, ma la sua faccia emaciata, dove il bruno del colorito s’ingialliva nel pallore di qualche lunga malattia, pareva di un convalescente. Una grossa testa di scienziato sopra un corpo miserabile di nano: una criniera folta, selvaggia, dove già apparivano i capelli bianchi: gli occhi fieri, timidi: una barbetta di un nero sporco, rada sulle guance scarne. Una bruttezza infelice e pensierosa. Parlava, immobile, con gli occhi chinati,