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più corretto, più fine nella linea, più artista nel gesto che il ministro dei ministri. Aveva qualche cosa di britannico nella compostezza grave, nella sobrietà dell’espressione. Leggeva lentamente, spiccando le parole, con la voce più che stridula, acidola come il succo di limone: voce aristocratica. E, singolare a dirsi, il suo discorso, già preparato, combattè le fioriture rettoriche del ministro che aveva improvvisato il proprio.

Egli rimise a posto tutta la poesia del corno dell’abbondanza e del sudore della fronte. Disse che la mostra era già qualche cosa, ma che non era tutto: disse che il movimento economico e finanziario non si era ancora comunicato alla massa dei coloni; che poco slancio avrebbe potuto avere sino a che sussisteva una fiscalità così dura; che qualche tentativo di coltura inglese e di fattoria-modello era andato a male. Disse che non bisognava chiedere alla terra più di quanto essa potesse dare, e che significava estenuarla, domandandole sempre: soggiunse che la questione agraria era più seria di quanto paresse, ma che nelle provincie meridionali era aiutata da tanto splendore di cielo e da tanta dolcezza di clima. Fu l’unica concessione poetica che fece, egli che era poeta prima di tutto; ma in lui la coscienza tranquilla del ricco ed esperto proprietario parlava alto. Il ministro ascoltava approvando col capo, come se tutte quelle idee fossero le sue, come se non fossero la contraddizione più aperta e più ferma di quello che egli aveva detto.

Il deputato aggiunse, dopo una pausa sapiente e con un piccolo sorriso — il primo — che non voleva