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Quando Lucia Altimare-Sanna e Caterina Lieti comparvero sotto la porta, scortate da un solo cavaliere, Alberto Sanna, che veniva loro dietro con la sua faccia stanca, annoiata, Andrea Lieti si staccò precipitosamente dal banco presidenziale, attraversò la folla, e offrì il suo braccio a Lucia.

— Vienimi dietro, Alberto, con Caterina. Vi troverò un buon posto.

Mentre Andrea e Lucia passavano, un mormorio si levava nella folla. In verità lei era molto seducente e provocante nel suo abito lunghissimo di raso bianco, carico di merletti antichi, che la vestiva col busto come un guanto lucido, come una corazza di acciaio, lampeggiante alla luce — e colla gonna come una nuvola, senza contorni precisi, quasi i merletti dovessero involarsi al vento. Sui capelli bruni, intrecciati mollemente e arricciati sulla fronte, invece del cappello, per bizzarria, una sciarpa di merletto veneziano bianco, fine e prezioso, aggruppato all’egiziana, che scendeva fino alle sopracciglia, si avvolgeva al collo ed era sostenuto sotto l’orecchio da tre rose bianche, fresche, rugiadose, col seno roseo. Gioielli, no.

Una leggiera tinta di sangue coloriva le guance più piene; le labbra fatte più carnose, più umide, erano di carminio. Sorrideva al suo cavaliere, alto, forte, bello di vigoria, che si chinava su lei come per proteggerla.

— Chi è? — La moglie di Lieti? — No: una parente della moglie. — È bella. — È magra, ma piacente. — Troppo lusso. — Che! è una festa ufficiale. — È bella. — È bella. — È bella.